Consumare non è una necessità: è un modo di esprimere un’ identità, sia per dimostrare le proprie capacità economiche, il proprio punto di vista, il proprio modo di essere, sia per resistere a un modello, quello della società dei consumi, che è diventato eccessivamente invasivo.
Il consumismo critico, questo nuovo modo di esercitare il nostro potere d’acquisto, è praticato dal cosiddetto “cittadino critico”, ovvero colui che pensa al significato dei suoi acquisti prima di effettuarli: verifica le fonti, i modi di produzione, fa attenzione al comportamento sociale dell’azienda, pensa al modello di sviluppo del brand e, solo dopo, sceglie se “comprare” il prodotto oppure no.
Questo modo di essere è l’espressione di una forma di resistenza radicale al modello economico dominante: fa parte di quelle forme alternative di sviluppo chiamate “decrescita felice” (pensiero elaborato da Serge Latouche) e “semplicità volontaria”. La semplicità volontaria (neologismo dall’inglese downshifting) è la scelta di coloro che “rinunciano volontariamente a quote del proprio salario e spesso alla propria carriera in cambio di maggior tempo a disposizione”.
Perché il non possedere certi tipi di alimenti, di capi vestiario o di oggetti è diventato il modus vivendi di coloro che vogliono resistere al dilagare della produzione di massa che sta soffocando il pianeta di residui e rifiuti.
Così il cittadino critico sceglie prodotti agricoli locali, capi di vestiario di piccoli artigiani, predilige filiere corte e integrate, ha una coscienza collettiva e ha a cuore il bene del pianeta.
Si stanno sempre più affermando scelte di vita che antepongono il bene della collettività e dell’ambiente alla soddisfazione di bisogni effimeri, desideri costruiti e acquisti impulsivi.
Il consumatore critico, smascherata la capacità della comunicazione di massa di strumentalizzare necessità e creare bisogni, decide di non acquistare.
Un potere forte in un gesto semplice.
Per saperne di più: Francesca Forno, Paolo R. Graziano "Il consumo critico"